domenica 13 gennaio 2013

La recita

(Autore Anonimo)

“Ho capito” disse. Ed entrò in scena.

La prima sensazione fu di impaccio: la pesante acconciatura lo limitava nei movimenti ed anche la tecnica espressiva gli dava non pochi problemi. Prezioso fu l’aiuto dei compagni di lavoro che subito gli furno intorno. Nessuno gli fece pesare gli errori iniziali, ed il periodo di “rodaggio” passò presto anche perché non era certo un pivello.

Quando rivolse l’attenzione all’intorno si rese conto che il boss non aveva affatto tirato al risparmio: il palcoscenico era grande, ben più grande di quanto una prima impressione potesse suggerire; le luci a dir poco perfette, gli scenari ricchissimi e di ampio respiro. Difficile immaginare effetti migliori di quelli, speciali e non. L’ambientazione non mancava di varietà, compresa una profusione di piante ed animali. Il meglio del meglio senza dubbio.

Il suo ruolo non lo impensieriva. La parte iniziale molto semplice, quasi banale, gli concedeva tutto il tempo necessario per adattarsi ed egli si sentì presto a suo agio sfoderando doti di grande scioltezza e disinvoltura. Gli altri erano molto contenti di averlo con loro e glielo dimostravano. Impersonava uno studente che ottiene buoni risultati, ha un buon rapporto con i compagni ed i professori, non da soverchi problemi ai genitori.

A poco a poco si calò così bene nel personaggio che cominciò a divertirsi. Questa commedia gli piaceva.

La sua interpretazione era molto naturale; le vicissitudini più disparate, dal tragico al comico, venivano affrontate con vera partecipazione e ricchezza di sentire e la vicenda, mai priva di interesse, scorreva velocemente. Di lì a poco lo studente di addottorava, poi veniva il servizio militare, seguiva un buon impiego ed anche una bella famigliola. Copione semplice, ma non privo di impegno, che lui recitava in totale simbiosi con il personaggio tanto che, ad un certo punto, dette addirittura l’impressione di essere andato oltre, di credere di essere davvero quel Sig. Direttore, come gli altri lo chiamavano. il gioco della botteghina lo aveva preso e lui si comportava come se quella fosse proprio roba sua, dimentico del fatto che stesse recitando una parte.

Si affaccendata di continuo, metteva bocca dappertutto. Finì per pensare di essere indispensabile. Bravo, ma un po’ invadente.

Le ansie, i timori, le gioie del personaggio, le aveva fatte sue e se ne lasciava coinvolgere profondamente.

La sua caratterizzazione dell’anziano fu un capolavoro: dava consigli a tutti, trovava sempre da ridire, magari cose giuste anche se un po’ scontate. Poi prese il bastone, cominciò a camminare curvo, saliva le scale ansimando: avrebbe mosso chiunque a dargli una mano.

Ora la sua parte volgeva al termine, ma lui si era così affezionato al suo personaggio che, quando arrivò alle ultime battute, si vide chiaramente che era contrariato, dispiaciuto. Pensava veramente ch, senza di lui, la commedia non potesse andare avanti.

Ma il copione ha le sue esigenze ed egli si trovò dietro le quinte quasi senza accorgersene. Rimase un po’ lì a sbirciare, riluttante. Aveva così poca voglia di andarsene che cercò persino di attrarre l’attenzione di qualcuno dei compagni di lavoro, ma tutti erano presi dal proprio ruolo e nessuno gli fece più caso.

Finalmente si convinse anche lui che la sua parte era finita. Si liberò definitivamente dell’acconciatura e riaquistò quasi con sorpresa la sua naturale mobilità provando un senso di liberazione che lo riportò alla realtà.

Salì al primo piano ormai rasserenato mentre andava rivedendo la sua performance e cercava di porsi dall’altra parte per cogliere eventuali motivi di miglioramento. Così, scorrendo all’indietro il suo semplice copione, si diresse verso l’archivio. I suoi precedenti lavori, tutte le sue esperienze passate, erano lì. Una lunga fila di cartelle, così lunga che non se le ricordava nemmeno.

Le scorse con gli occhi fino in fondo, e sfilò la prima mettendosi a leggere. A ripensare a quel suo primo lavoro così lontano, si sentì antico.

Ne lesse un’altra ed un’altra. Le parti che gli erano state affidate all’inizio erano semplici, primitive. I personaggi erano rozzi, con caratteri violenti ed inevitabilmente andavano incontro a morte traumatica e prematura. Poi man mano che faceva esperienza gli avevano dato da interpretare ruoli più impegnativi.

Ce ne era voluto di tempo per imparare a vivere in quel modo ma, poco per volta, aveva fatto di tutto, adattandosi ad ogni situazione. Gli ultimi copioni erano poco più che delle tracce con cui il personaggio veniva appena accennato, due o tre fatti importanti puntualizzati e tutto il resto era affidato a lui che era ormai in grado di sostenere tutta la parte, recitando a soggetto, con la maestria che viene da una lunga esperienza. Poteva considerarsi completo, arrivato, capace di affrontare qualunque evenienza prevista o meno.

Eppure non si sentiva soddisfatto. C’era qualcosa che sembrava mancare, come una lacuna che non riusciva a definire ma che certamente era lì. I suoi lavori gli facevano l’effetto di una sonata tecnicamente perfetta ma fredda e questa, pensò, doveva essere la chiave. Ed era proprio così: sul palcoscenico c’era solo il personaggio, immerso nelle piccole cose, nelle ansie di tutti i giorni, sommerso da mille problemi. Lui, l’attore, potremmo dire l’anima di quel personaggio, era assente, non si vedeva che raramente. La statura interiore, la serenità che viene da un briciolo di distacco e dalla coscienza che l’essere va ben al di là della recita, non c’erano. Ed egli lo vide, lo capì e gioì profondamente di questa scoperta che gli parve importantissima. Ne trasse un nuovo impulso, si sentì attratto dal palcoscenico, desiderò tornare subito a recitare e mettere inpratica la grande lezione.

Andò in cerca del Regista per avere un altro copione. L’Amico e Maestro lo accolse benevolo con l’aria di chi sà già tutto ed alla sua richiesta rispose che lui non aveva più bisogno di alcun copione. Poteva entrare in qualsiasi momento e fare tutto da se. Lo accompagnò quindi fino alle quinte raccomandandogli di tenere ben presente ciò che aveva appena scoperto, che quello era il suo vero grande tesoro.

Con l’entusiasmo di un bambino si apprestò ad indossare la nuova acconciatura e guardando il Maestro con riconoscenza e devozione disse:

“Ho capito” – ed entrò in scena.

Le verità bibliche

(dagli studi del dott. Mauro Biglino)

La presunta verità dogmatica mi ricorda un modello della FIAT: è multipla.

Dico sempre che con la Bibbia la cosa migliore - anzi a mio avviso l’unica corretta - è “fare finta che…”.

Da settembre in poi sto documentando come la Bibbia alla quale siamo invitati a credere dipenda dal luogo geografico e dal periodo storico in cui nasciamo: in sostanza, qualcuno decide per noi quali sono i libri “credibili” e quali no (46 per i cattolici, canone ridotto per i cristiani riformarti, 39 libri per gli ebrei, libri diversi per i copti… e così via…)

Ad esempio, entrando in uno dei tanti possibili contenuti, nelle conferenze mi capita spesso di ipotizzare che i fuoriusciti dall’Egitto con Mosè non fossero i componenti del popolo ebraico, bensì un insieme di genti di varia estrazione che con ogni probabilità parlavano egiziano…

Sappiamo che bibbia tradizionale ci narra di un popolo israelita già formato, schiavizzato e quindi fuoriuscito in massa…

Partendo dallo studio del testo biblico e della letteratura extrabiblica, il Rabbino Lee I. Levine (Docente di Storia ebraica alla Hebrew University di Gerusalemme) scrive invece che l’identità israelitica si è formata ben dopo l’Esodo ed è il frutto di un periodo molto lungo di gestazione e accorpamento che ha coinvolto semiti e non semiti, nomadi e seminomadi, abitanti di Canaan e gente che vi è immigrata.

Ad andare ancora oltre sono gli studiosi Messod e Roger Sabbah, due fratelli di famiglia rabbinica.

Usando i Targumim (bibbia aramaica) in raffronto con documenti egizi, essi scrivono che gli ebrei in Egitto non esistevano e che i fuoriusciti al tempo di Mosè erano in sostanza egiziani adoratori di Aton.

Secondo le loro acquisizioni, il gruppo fuoriuscito era costituito dagli Yahud (termine egizio dal quale deriverebbe il vocabolo Yehudim, giudei, che indicava la casta dei nobili e dei sacerdoti di Aton) e dal cosiddetto “popolo di Israele” (i futuri ebrei), che era in realtà l’insieme dei proseliti: lavoratori di varie etnie poco considerati e poi relegati a vivere nella zona nord del paese di Canaan (il regno di Israele, contrapposto al regno di Giuda, costituito appunto dai nobili/sacerdoti Yehudim).

A favorire la loro uscita sarebbe stato il generale/faraone Ay che nella bibbia aramaica corrisponde a Yahweh, indicato con la doppia yod.

Affermano inoltre che la lingua di questi yehudim (yehudaé in aramaico) era l’egiziano, che cessarono di usare solo nel periodo dell’esilio babilonese, quando si adattarono alla situazione per compiacere i loro nuovi governanti, avversari dell'Egitto.

Insomma, partendo dalla bibbia aramaica, i due studiosi di famiglia rabbinica ricavano indicazioni diverse da quelle contenute nella bibbia masoretica, su cui sono basate sostanzialmente le attuali credenze e sulla quale io lavoro, perché è quella che viene definita “ispirata” dal dio che le teologie e ideologie di varia estrazione hanno elaborato.

Le discordanze ovviamente non finirebbero qui… ma per questo post direi che sono sufficienti.

La verità tra la versione masoretica e quella aramaica?

Mah!?

Nell’attesa, io continuo a “fare finta che…”.

Senza dimenticare che l’uscita dall’Egitto di un insieme di genti, chiunque esse fossero, pare essere descritta anche nella stele di El-Arish (Museo di Ismailiya, Egitto), i cui caratteri geroglifici sono stati studiati e tradotti dal Prof. Hoffmeier (Professor of Old Testament and Near Eastern Archaeology, Trinity International University, Deerfield, IL).

In quella stele si racconta in sostanza che molte persone, guidate da un principe del deserto che operava per conto un dio avversario, si allontanarono dal territorio e nel corso della loro marcia si accamparono in una località conosciuta col nome di Pi-Karroti.

La Bibbia narra che quel popolo, guidato da Mosè che operava per conto dell’Elohim Yahweh, (avversario del faraone e quindi immaginiamo anche dei suoi “superiori”), si allontanò e si accampò in una località chiamata Pi-Akhirrot: pare proprio che la stele e la Bibbia si riferiscano alla stessa località.

Dopo di che il geroglifico dell’acqua ripetuto tre volte e quello del coltello ripetuto due volte indicano, secondo il docente, che una grande “massa d’acqua” fu tagliata in due”, proprio come ci racconta la Bibbia che chiama quell’acqua “yam suf” cioè “mare di canne”.

Insomma, andiamo avanti, perché “facendo finta che”… piano piano… forse…

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(ETZ HAYIM, Ed Yewish Publication Society, 2005 New York
Les secrets de l’Exode, Ed Godefroy, 2000 Paris)

sabato 12 gennaio 2013

L'evoluzione dell'uomo

(Autore Anonimo)

L'ambiente in cui l'individuo compie la propria evoluzione è costituito dal piano fisico, dal piano astrale, dal piano mentale, dal piano Akasico e dai piani spirituali.

Tutti i piani di esistenza sono intorno a noi: entro la materia stessa è il mondo degli spiriti. Ma l'uomo, quando è incarnato, non riesce percepire più di quanto rientra nel ristretto campo dei suoi sensi fisici.

Per ogni campo di esistenza l'individuo ha dei veicoli, dei corpi: il corpo fisico gli permette di vivere sul piano fisico; il corpo astrale presiede alla sua vita di emozioni, sensazioni, desideri; il corpo mentale dà all'uomo tutte le facoltà che sono proprie della mente, l'intelletto e i pensieri; il corpo akasico, o coscienza, riceve e trascrive, facendola diventare natura medesima dell'individuo, la realtà che l'uomo, esistendo, scopre e acquisisce.

Quando l'uomo ha cessato di vivere, abbandona il corpo fisico, ma sosta vicino a esso per qualche tempo ed è spesso grandemente disturbato dalle scene di pianto degli astanti.

Ha quindi una sommaria visione della sua vita trascorsa ed è spesso aiutato, in questo suo primo contatto con il piano spirituale di esistenza, dalle persone care trapassate prima di lui.

Il mondo astrale è molto simile a quello fisico: un mondo vastissimo e meraviglioso, popolato di tantissimi individui.

La sosta più o meno lunga nel mondo astrale, dipende dal grado di evoluzione che l'individuo ha raggiunto: l'anima evoluta vi si trattiene solo brevemente, le altre anime o rivivono dolorosamente le colpe commesse e in questo modo se ne purificano, oppure si creano un mondo fittizio che consente loro di cullare desideri insoddisfatti: finché, stanca e saziata dai propri sogni, l'anima si trova sulle soglie del piano successivo, il piano mentale, di cui prima di allora non aveva neppure immaginato l'esistenza.

Nel piano mentale ogni creatura è immersa in una continua meditazione, e completa le nozioni che ebbe nell'ultima incarnazione: gli scienziati continuano a studiare quei problemi ai quali non seppero trovare risposte, in modo che nella nuova incarnazione ne avranno poi insite le soluzioni.

Una volta elaborato tutto il materiale accumulato nell'ultima incarnazione, l'individuo lascia il corpo mentale e le facoltà raggiunte passano nel corpo akasico, cioè alla coscienza dell'individuo.

Il piano akasico conserva impresse in sé tutte le esperienze avute nelle varie incarnazioni e si costituisce man mano che l'individuo si evolve.

Se l'individuo non è molto evoluto, il suo corpo akasico non è sufficientemente costituito e quindi permane in questo piano, rivedendo con tranquillità tutte le passate esistenze, finché non è pronto per una nuova incarnazione che amplierà ancora la sua coscienza. se invece in corpo akasico è sufficientemente costituito, l'individuo gode di una lucida esistenza riversa sugli altri piani un amore sconfinato e una comprensione senza limiti.

Questo è quindi il piano della fratellanza universale e dell'amore, il piano dove tutti vivremo coscientemente, comprendendo che tutte le amarezze che oggi ci turbano sono esperienze necessarie alla nostra evoluzione, alla nostra nascita spirituale.

Quando l'individuo sente di essere un tutto con il resto del creato, abbandona anche il piano akasico, si avvicina sempre più al fulcro del suo essere, alla scintilla divina, ed è pronto per raggiungere i piani spirituali, alla conquista della coscienza cosmica ed assoluta.